The memory is still dreaming!
Hear again, little steps from death,
While, the darkness rules,
our lonely hearts, and my weak light.
See the Human blood, on my African skin,
remember my Sons, their fetters!
Dirty and black, like the heart of this land.
Never look back, anymore!
Rwanda, twenty years later,
take now, your dreams and hopes,
and express yourself.
The last night on this earth,
as, a mother,
my eyes are breaking my fears!
A grey gun, next to my mind,
close my hands, and my car stops its journey.
My words are tired, the Sea will decide my future!
“Go on, now little woman!
Rwanda, no fetters anymore,
take your life , and make it a dream,
It will always come true.
One more Sunset, take your time,
in this magical night,
where the happiness walks with the hope.”
My Car starts again, life becomes faith,
for a new journey, for a new destiny.
“Fly open, to my Rwanda!”.
Una poesia in lingua inglese ispirata alla testimonianza di Yolande Mukagasana, accompagnata dall’illustrazione di Lilliana Comes, per commemorare oggi, non solo la storia di questa donna ma le tante storie di uomini e donne, di una nazione, la quale, a distanza di venti anni, ripercorre il tragico genocidio con passi amari e dolorosi, ma anche con la speranza e la bontà di poter ogni giorno spalancare la vita alla generosità, fratellanza, rispetto sociale e soprattutto umano ad altre realtà limitrofe africane, che oggi rischiano di vivere ciò che i ruandesi, la nazione, hanno vissuto nel lontano 1994. Dal 6 Aprile fino alla metà di luglio di quell’anno, per circa 100 giorni furono massacrate 500.000 persone, secondo le stime di Human Rights Watch. Le vittime furono prevalentemente Tutsi, i quali furono estromessi dal potere dagli Hatu, che costituivano l’85% della popolazione.
Nella primavera 2014, l’ONLUSCompassion torna in Africa con una squadra coordinata dal fotografo di fama internazionale Nicolino Sapio che, insieme ad un team di alti professionisti, tra questi Valter Scappini, hanno realizzato un reportage fotografico, e non solo, sulla condizione attuale del Paese, prestando attenzione alle nuove dinamiche sociali e politiche, senza perdere d’occhio l’obiettivo centrale, quello di testimoniare e raccontare alla società euroepea e non solo, il popolo ruandese venti anni dopo.
G.G.: Il genocidio del Rwanda fu uno degli eventi più sanguinosi del secolo scorso. Recentemente, grazie alla collaborazione dell’ ONLUS Compassion, siete partiti per la terra nera, per raccontare alla società italiana cos’è il Rwanda, venti anni dopo la tragedia; ma com’è la società rwandese oggi?
Nicolino Sapio: Siamo rimasti in Rwanda per 8 giorni e l’abbiamo girata in lungo e il largo, da Nyagatare a Butare da Ruhengeri a Kigali, ma tutto ciò non è sufficiente a raccontare la vita in un Paese. Tutte le mie impressioni non possono essere una fotografia esatta della situazione attuale. Comunque ho visto uno stato che ha fatto molto per voltare pagina e per cominciare in modo pulito un nuovo capitolo della sua storia. Hanno abolito le carte d’identità con le distinzioni etniche introducendone una uguale per tutti i Rwandesi. Il sabato si ritrovano spalla a spalla per pulire le strade della città e anche questo è un programma che facilita l’integrità e la collaborazione tra le persone. Comunque pare che ci siano delle zone che ancora oggi non si possono dire completamente tranquille.
Valter Scappini: Se dovessi quindi dire cosa credo sia la società ruandese oggi direi che è una società nuova, che ha fatto della tolleranza e del rispetto uno degli elementi importanti della sua esistenza. Questa è una esperienza estremamente interessante ed importante nel continente africano e va certamente supportata ed aiutata, così come adesso il Ruanda stesso è un elemento di stabilizzazione delle crisi di Paesi vicini: truppe ruandesi sono inquadrate in missioni internazionali di peacekeeping in territori limitrofi. Per ironia della sorte, quelle stesse missioni di cui il Ruanda aveva bisogna 20 anni fa e che le furono praticamente negate, sono ora supportate dal Ruanda stesso che ha vissuto sulla propria pelle il fallimento delle politiche internazionali di allora.
G.G.: Il mondo, e in particolare la società internazionale, allora girò le spalle; ora chiede perdono e compassione a quelle gente, che semplicemente chiedeva aiuto e sostegno, soprattutto morale. Come vedono il perdono, verso questa vicenda, i ruandesi, soprattutto quelli che vent’anni fa erano giovani e adolescenti?
Valter Scappini: Un altro aspetto sul quale mi facevo molte domande prima della partenza e che volevo capire. Durante la nostra permanenza abbiamo parlato con varie persone, sia in interviste organizzate che in normali conversazioni quando si presentava l’occasione. Credo sia necessario distinguere tra il “perdono” nei confronti dei criminali di allora, e la posizione nei confronti della comunità internazionale. Alcuni dei paesi europei non sono visti di buon occhio in quanto considerati a tutti gli effetti complici nelle vicende di allora. Mi riferisco al Belgio e soprattutto alla Francia. E’ proprio di qualche settimana fa la decisione del presidente Paul Kagame di dichiarare la Francia “paese non gradito” e quindi non invitarlo alle celebrazioni del 20 anniversario del genocidio. Comunque sia, non ho avvertito alcuna “tensione” nei confronti dei paesi occidentali. Al contrario l’Europa era vista come una possibilità di ulteriore crescita e luogo dove poter magari trascorrere un periodo di studi prima di tornare in Ruanda. Quindi, al di là delle vicende storiche, l’idea è ancora quella di una possibile relazione positiva. Relazione positiva che ovviamente deve essere ridefinita in termini di reciproche posizioni e rispetto. Quelli che erano bambini allora e si sono salvati hanno ancora le ferite indelebili dell’anima, e qui viene necessariamente incontro la struttura sociale, le organizzazioni che, come Compassion, subito dopo la fine del genocidio ripreso la loro attività nel territorio. Una situazione impossibile da descrivere. Non solo una terra devastata dal sangue, dalle fosse comuni, dalle chiese bruciate, ma anche una popolazione annichilita, distrutta psicologicamente, devastata. Una struttura sociale semplicemente annientata.Non dimentichiamo che oltre il quasi milione di morti, c’erano i profughi, la fame, l’assenza di una qualsiasi prospettiva, il timore di rigurgiti di violenza. Molti impazzirono (questo è un aspetto meno noto ma presente).
Nicolino Sapio: Se esiste un posto al mondo dove si può imparare qualche cosa sul perdono, quello è proprio il Ruanda. Tutti possono perdonare in teoria o facendo ragionamenti filosofici. Se si è subìto un torto e chi lo ha fatto sta pagando con il carcere il suo crimine, forse è più facile perdonare ed essere in pace con se stessi. Ma quando vedi tutti i giorni il tuo vicino di casa e sai che vent’anni fa ha fatto uccidere o addirittura ha ucciso personalmente ogni membro della tua famiglia allora quello è il vero perdono. Gesù dice di amare i propri nemici e in questo Paese le sue parole, dette più di duemila anni fa, prendono forma e diventano la più grande espressione di amore possibile.
G.G.: Durante il vostro viaggio avete incontrato diverse persone sopravissute alla sanguinosa tragedia, tra questeYolande Mukagasana, protagonista da sempre nel raccontare al mondo i segreti e i veri colpevoli di questa lotta umana, entrata nella storia come genocidio. Condividete la sua tesi?
Nicolino Sapio: per tutto il mondo. Dietro questa grinta c’è però un grande cuore che non solo non è stato reso arido dalla guerra, ma anzi, è stato reso più forte e generoso dalle perdite che ha subito nel corso degli anni. La sua missione non è sostenere una tesi. Lei semplicemente racconta a chiunque abbia un cuore aperto e uno stomaco forte ciò che ha vissuto in prima persona. Ha negli occhi il genocidio e ha visto massacrare i figli e il marito. Questi sono dei fatti e non un’opinione da sostenere in una tesi. Mi resterà sempre nel cuore la frase che mi ha scritto in dedica sul suo libro. Un giorno vivrò anch’io. – “Caro Nicolino, quando noi offriamo dei fiori, il loro profumo resta sulle nostre mani. Cordialmente Yolande” –
Valter Scappini: Yolande è una persona di rare qualità umane ed intellettuali. Quello che ha passato lei stessa, come si è salvata e quanto ha poi fatto per il paese in particolare e per la corretta visione storica delle vicende è veramente notevole. Senza retorica devo dire che è stato un vero onore poter parlare con lei. Il suo lavoro continuo di documentazione da una parte, e di interpretazione e analisi dall’altra, credo sia essenziale per poter avere una visione il più possibile completa della storia del Ruanda, delle responsabilità internazionali e di come sia necessario affrontare il passato senza mezzi termini per poter pensare ad un futuro migliore. E giusto. E questo vale naturalmente non solo per il Ruanda. Yolande si pone a buon diritto tra i “grandi” della storia. E se dovessi consigliare degli approfondimenti per conoscere la storia del Ruanda, suggerirei di cominciare proprio dai suoi lavori e dal libro del Gen. Omeo Dallaire.
G.G.: Chi sono stati davvero i colpevoli, i francesi?
Valter Scappini: Ci sono responsabilità a più livelli e distribuite in maniera diversa nel tempo. Di certo la vicenda del Ruanda è una delle conseguenze storiche del colonialismo che nel caso specifico ebbe, nella sua parte finale, i nomi di Belgio e Francia. Le tensioni interetniche tra Hutu e Tutzi vennero amplificate nel tempo in maniera grandissima proprio in conseguenza di scelte fatte dai paesi dominanti. In particolare la Francia per lunghi anni appoggiò ed addestrò gli Hutu e non fece nulla per allentare lo stato di crescente tensione che precedette il genocidio. Si dice che il supporto francese agli Hutu non venne mai negato. Di certo la Francia ha avuto un ruolo importante nel non riuscire (qualcuno dice “non volere”) disinnescare le condizioni che portarono al disastro.
Nicolino Sapio: Non è possibile attribuire ad uno solo la responsabilità di un genocidio, quello del Ruanda così come qualsiasi altro genocidio. Ritengo che tutti quelli che, come me, di fronte alle immagini dei telegiornali hanno semplicemente cambiato canale senza dire o fare niente, ne siano in parte responsabili. Ho scoperto solo negli ultimi mesi che il genocidio del Ruanda è molto di più che quel tragico ’94. Un genocidio non si compie in 100 giorni, ma ci vuole una preparazione di anni e in questo si possono vedere le responsabilità dell’uomo bianco a partire dalla sua politica di colonialismo e di presunta superiorità e “civiltà”. I francesi, così come tutti i paesi sviluppati, hanno voltato colpevolmente le spalle ad una nazione che economicamente non interessava a nessuno.
Ma la loro colpa più grande è quella di aver armato e di armare ancora oggi gli stessi uomini.
G.G.: Insieme avete scattato migliaia di foto, tratte da un viaggio difficile ma indelebile. Negli ultimi anni l’arte della fotografia si è rilevata uno strumento idoneo per promuovere attività di advocacy e per sensibilizzare la società civile su temi, eventi e personaggi distanti dal nostro credo e dal quotidiano occidentale. Qual è il messaggio?
Nicolino Sapio: William Eugene Smith diceva che: “La maggior parte dei fotografi sembrano agire da dietro un vetro che li separa dai propri soggetti. Non riescono a entrare in contatto con loro per conoscerli. Bisogna diventare vicini e amici, anziché giornalisti.” I tempi sono cambiati, il foto giornalismo è cambiato ma nonostante tutto anche il miglior messaggio quando si scontra con la superficialità e l’indifferenza della gente non ha purtroppo la possibilità di cambiare le cose.
Valter Scappini: La fotografia è certamente importante, anzi importantissima. Ma non va idealizzata, né va ingenuamente considerata come un’arma capace di risolvere ogni situazione. La fotografia può essere une elemento catalizzante per concentrare l’attenzione, per portare un evento, una situazione alla ribalta e “definirne” quindi l’esistenza, la vera e propria esistenza agli occhi dell’opinione pubblica. Ma anche la fotografia può essere manipolata ed usata strumentalmente. E’ necessario un coinvolgimento completo dell’aspetto della comunicazione, dove la fotografia è solo una parte. In più questi eventi sono processi storici che hanno un percorso lungo e contraddittorio, e la fotografia spesso giunge solo quando questi stessi eventi sono “esplosi” e sono quindi diventati “paganti” agli occhi dei media. In definitiva credo che sia la coesistenza di vari elementi, ciascuno con la propria valenza e ruolo a poter fare la differenza: media, e qui intendo fotografia e giornalismo (di qualità, ovviamente e non la ricerca del macabro e dell’effettismo fatto di sangue), coscienza civile delle opinioni pubbliche, capacità nazionale ed internazionale nell’assumersi delle responsabilità anche difficili.
G.G.: E’ un lavoro indirizzato alla comunità internazionale?
Valter Scappini: E’ indirizzato a tutti, indistintamente. Ma principalmente è indirizzato alla gente comune, normalmente lontana da certe problematiche o situazioni e che quindi può averne coscienza solo per il tramite dei media e, quindi, anche della fotografia. Di nuovo qui entra in gioco il modo con cui questo viene proposto, la durata e il livello di approfondimento con cui l’argomento viene trattato. In definitiva, si tratta di coinvolgere un pubblico non specializzato e spesse volte non sensibilizzato verso problematiche spesso lontane dal suo modo di essere.
Nicolino Sapio: L’immagine, quando è fatta bene, parla da sé. Non ha bisogno di spiegazioni ne tantomeno di traduzioni. Per questo motivo è il mezzo più rapido ed efficace per dare un messaggio al mondo intero. Se però su queste immagini si chiudono gli occhi, queste perdono totalmente il loro scopo
G.G.: Cosa consigliate possa fare oggi la comunità internazionale, non solo in Rwanda, ma anche negli stati limitrofi, nei quali da anni si stanno evolvendo situazioni analoghe al genocidio rwandese del 1994?
Nicolino Sapio: Facile! Basta non chiudere gli occhi e aprire il cuore. Chiunque chiude gli occhi, volta pagina o cambia canale perché la cosa non lo riguarda da vicino o non gli interessa, allora è colpevole.
Valter Scappini: Avere il coraggio di imparare dagli errori del passato. Purtroppo non mi sembra che si sia imparato molto da tali errori. Il compito della comunità internazionale è quello, o dovrebbe essere quello, di identificare la criticità di una situazione e i suoi punti di manovra per “disinnescare” quella bomba che altrimenti andrà ad esplodere. E fare tutto questo in termini reali e concreti e non mascherandosi dietro la comoda ingenuità di regole, cavilli e documenti che, come visto nel caso del Ruanda, hanno portato alla morte di quasi un milione di persone. Operare in maniera preventiva, ad ogni livello ed in particolare con l’informazione nei paesi coinvolti e nelle opinioni pubbliche occidentali, ed operare in maniera esecutiva, ove necessario e nei modi che la situazione richiede, dopo una adeguata conoscenza della situazione stessa. Che è poi quello che lo stesso ONU ha sempre definito e molte volte, e il Ruanda è solo una di queste, non attuato.
Di Giuseppe Giulio http://www.cronacheinternazionali.com/a-ventanni-dal-genocidio-nicolino-sapio-e-valter-scappini-ci-raccontano-il-ruanda-di-oggi-5763